GIUSTO PROCESSO E LINEE GUIDA

Il diritto a un equo processo è un fondamentale diritto dell’uomo, riconosciuto come tale in tutti gli ordinamenti degli stati di diritto; è espressamente sancito dall’art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e dal Sesto emendamento della Costituzione degli Stati Unitid’America.

Il Legislatore italiano del 1989, introducendo il cosiddetto “Codice Vassalli”, si era posto il proposito di superare la tradizione inquisitoria e di uniformare il nostro rito penale ai principi universali del “Giusto Processo”.

Oggetto di contrastanti valutazioni, la riforma costituzionale del “giusto processo” ha rappresentato il passo necessario per superare l’interpretazione riduttiva del contraddittorio seguita dalla Corte costituzionale nel 1992, che aveva di fatto vincolato il legislatore ad un modello di processo fondato sulla rilevanza dibattimentale di ogni dichiarazione segretamente resa nell’indagine preliminare. Il nuovo testo dell’art. 111 Cost fissa i concetti fondamentali in tema di processo penale e di prova, principi ai quali si ispirano, di conseguenza, i caratteri propri del giudizio penale inquisitorio: funzione cognitiva del processo, giustizia negoziata, significato e criteri di verità, scoperta vs ricostruzione, giudizio di fatto e giudizio di diritto, struttura ternaria del procedimento probatorio, tipologia delle prove (con particolare riguardo alla distinzione tra dichiarazioni di prova e prove critiche), colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Al centro del “giusto processo” si colloca il contraddittorio nella formazione della prova, a buon diritto definibile “la regola d’oro del processo penale”. Alla direttiva costituzionale ha dato attuazione la l. 63/2001, negando valore probatorio alle dichiarazioni unilateralmente raccolte dagli organi inquirenti: il regime delle contestazioni nell’esame testimoniale, la sottrazione per libera scelta al controesame, l’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine sono alcuni tra i temi correlati.

Gli operatori del diritto penale e processuale penale, oggi, non possono ignorare le scelte della Convenzione europea e gli indirizzi della Corte di Strasburgo, per esempio e tra gli altri in materia di confronto con i testimoni e di valore probatorio delle dichiarazioni divenute irripetibili.

Le nozioni di “giusto procedimento” e di “giusto processo” non appartengano alla tradizione giuridica italiana, ma a quella anglosassone e, in particolare, la prima costituzione in senso moderno che adopera esattamente l’espressione “giusto processo” è quella americana, allorché al V emendamento afferma che “nessuno potrà essere sottoposto due volte, per un medesimo reato, a un procedimento che comprometta la sua vita o la sua integrità fisica; né potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro se medesimo, né potrà essere privato della vita, della libertà o dei beni, senza un giusto processo; e nessuna proprietà privata potrà essere destinata a uso pubblico, senza equo indennizzo”.

Nella tradizione europea continentale, il concetto si lega all’affermazione dello Stato di diritto, la cui essenza risiede nel riconoscimento (costituzionale) dei diritti fondamentali e nella tutela giurisdizionale di questi nei confronti dello Stato.

Lo Stato di diritto presuppone un effettivo rispetto dei diritti dei cittadini da parte del potere pubblico: qualora l’esercizio di questo determina delle limitazioni dei diritti, questi limiti conoscono nel diritto positivo e, in particolare nella Costituzione, dei precisi “ontro limiti”. Il processo è quindi lo strumento rivolto ad assicurare che questi ontro limiti non vengano superati; ecco perché si definisce “Giusto”.

I principi, ed ancor più i propositi si scontrano con la realtà, con le difficoltà quotidiane e con la consapevolezza della mancanza delle condizioni oggettive minime, affinché si renda al cittadino un almeno accettabile, se non soddisfacente, servizio Giustizia.

A fronte della cronica mancanza di mezzi, al carico immane di lavoro, all’intasamento degli Uffici, alla carenza di personale di PG e di cancelleria, la buona volontà dei singoli non basta, per frenare la tentazione di rendere la crisi e l’emergenza il giusto alibi, per abdicare ai principi costituzionali e convenzionali.

Si registra una comunità di intenti circa gli obiettivi da perseguire, ovvero l’adozione di un processo garantito ed efficiente, cioè capace di raggiungere i fini che gli sono istituzionalmente propri. Nell’ambito dei frequenti dibattiti del Lapec, si è convenuto che tra i principi fondanti del processo accusatorio è da annoverare il suo scopo conoscitivo, di accertamento del fatto, mentre è inaccettabile una visione “sportiva” del processo e della giustizia. Pieno accordo circa il valore fondamentale del principio di contraddittorio, che nessuno, tantomeno la magistratura, vuole mettere in discussione. Particolarmente importanti tre affermazioni essenziali a livello teorico: a) il cosiddetto “principio” di formazione della prova nel contraddittorio delle parti, non è, in realtà, un principio del processo (come tale suscettibile di espansione tendenzialmente illimitata, comprimibile solo attraverso la realizzazione di altri principi, ma insuscettibile di eccezioni vere e proprie), ma una regola (come tale suscettibile di eccezioni: art. 111 comma 5 cost.); b) il principio di ragionevole durata del processo non è principio fondante il processo stesso – perciò si pone in posizione inferiore rispetto agli altri principi (difesa, contraddittorio in generale, imparzialità e terzietà del giudice) -, ma sua caratteristica essenziale di tipo modale che, per essere realizzata, necessita di conformare in maniera particolare gli altri principi; c) il processo “giusto” è quello che contempera organicamente in un bilanciamento razionale ed armonico i principi contrapposti che si contendono l’area del processo penale. Si è osservato che la ragionevole durata del processo rischia di essere utilizzata come grimaldello per scalzare altre importanti garanzie, ma si è replicato che oggi quel principio è stato inserito in costituzione sicché è legittimo riflettere a fondo e proporre tutte le soluzioni necessarie alla sua attuazione.

Si è manifestata perplessità sul c.d. “doppio binario” per i processi di criminalità organizzata. Si è convenuto che non è compito del giudice nel processo proporsi scopi di “lotta alla mafia”, ma che è certamente compito del legislatore e più in generale dell’ordinamento apprestare tutti i mezzi, anche di tipo processuale, per contrastare efficacemente il fenomeno.

Sul tema della prescrizione, convenuto che l’attuale disciplina dà luogo a fenomeni patologici, quali le impugnazioni meramente dilatorie e strumentali, si conviene che la rivisitazione della materia deve avvenire sulla base di una analisi approfondita degli interessi sostanziali e processuali tutelati dalla prescrizione, a partire dalla quale eliminare gli effetti patogeni dell’attuale disciplina.

Si registra un generale accordo sul fatto che l’obiettivo di costruire un processo efficiente e garantito può essere raggiunto solo utilizzando un approccio concentrato ed organico. A tal proposito occorrerebbe convenire sul concetto di “comune cultura della giurisdizione” individuandola nel cogliere la giurisdizione stessa come “programmazione (o funzione) condizionale e non di scopo”.

Di qui l’estraneità alla cultura della giurisdizione dell’atteggiamento del giudice che, giudicando nel processo, persegue uno scopo ad esso estraneo; del pubblico ministero che si presenta come imparziale, mentre, essendo parte, indirizza istituzionalmente la sua azione al perseguimento di uno scopo; del difensore che scredita l’accusatore od il giudice, attribuendo loro – nel mentre stanno esercitando correttamente la loro funzione – uno scopo estraneo; del difensore che, mentre esercita il suo ministero, fa tradurre in legge le eccezioni che propone al Tribunale.

Sono stati richiamati gli argomenti sui quali si registrano i maggiori contrasti (posizione del pubblico ministero, accesso alla formazione, questione della professionalità, organizzazione degli uffici, Consigli giudiziari), osservando che si tratta di problemi a monte del processo.

Di qui la proposta di iniziare il dialogo sulle grandi aree (macrostrutture) che caratterizzano il processo: depenalizzazione sostanziale e processuale (querela, irrilevanza del fatto, archiviazione condizionata); rapporto indagini/dibattimento; giudizi speciali (patteggiamento allargato); rapporto tra giudizio orale di primo grado e giudizio scritto in secondo grado; la disciplina della prescrizione. Un tale metodo, caratterizzato da un clima di sereno confronto, non connota allo stesso modo il dibattito politico, attualmente attraversato da forti tensioni.

Il percorso che mira a migliorare l’efficacia dell’azione giudiziaria si sostanzia dell’impegno generoso di alcuni operatori del diritto, più sensibili ai temi organizzativi del loro lavoro, disposti ad interrogarsi, confrontarsi e quindi modificare quanto possa garantire il miglior assetto della giurisdizione.

La spinta all’innovazione, motore di molte e meritorie iniziative, trova tuttavia ostacolo in coloro che, anche di fronte a regole condivise per la semplice organizzazione dell’udienza, invocano, refrattari all’uniformità, un mal riposto senso dell’autonomia ed indipendenza che non pertiene, invece, a queste situazioni.

Sembra ancora viva la tentazione di effettuare una (errata) equazione tra autonomia nell’esercizio della giurisdizione ed indipendenza nell’assumere moduli organizzativi individuali, nell’ambito dell’ufficio giudiziario.

Nel panorama, variegato e composito come il nostro Paese è capace di offrire, gli ambiti della giustizia penale rappresentano terreni fecondi nella riflessione ed elaborazione di analisi, soluzioni e proposte circa la strutturazione razionale del lavoro giurisdizionale.

La situazione è sfaccettata e, come spesso accade, eterogenea: da un lato, settori della giustizia maggiormente coinvolti nel processo di innovazione organizzativa, dall’altro, sedi giudiziarie che, più di altre, hanno manifestato interesse, attitudine e volontà nell’elaborare metodiche finalizzate ad un miglior assetto degli uffici e, quindi, della risposta giudiziaria.

Nell’interessante prospettiva, i ricercatori hanno affermato che, a differenziare ed incidere positivamente sulla durata dei processi, gioca un ruolo determinante quello che, con espressione sintetica, possiamo definire il case management.

In sintesi, ed accettando il rischio di banalizzare il contenuto del lavoro: quando il magistrato gestisce i processi del proprio ruolo in parallelo – cioè, per esemplificare, facendo progredire contemporaneamente un determinato numero di casi – il controllo sul relativo ruolo, come è intuitivo, si rivela piuttosto difficile ed a discapito, in definitiva, della tempestività nella risposta decisoria.

Quando i processi sono invece gestiti in sequenza (un minor numero di processi contemporaneamente aperti sul ruolo, con relativa chiusura dei casi, volta per volta) la possibilità di concentrazione sulla singola causa si rivela più agevole e si traduce, quindi, in una più rapida risoluzione giudiziaria, garantendo il contenimento dei tempi processuali secondo un paradigma (maggiormente) in linea con il giusto processo.

Premesso che l’esigenza di concordare, avvocati e magistrati, una serie di modalità nello svolgimento dell’attività giudiziaria origina dalla convinzione che la giustizia, servizio reso alla collettività (e solo in quanto tale, esercizio di un potere dello Stato), presenti ampi margini di miglioramento delle sue performance, ci si è mossi secondo differenti linee e livelli di azione.

La lettura dei molti esempi di protocollo, adottati di concerto in numerosi uffici nazionali, rende evidente che, nella quasi totalità dei casi, ci si occupa di disciplinare gli orari di udienza, la scansione delle sue fasi, l’informazione rivolta alle parti del ruolo dell’udienza (con determinazione, in alcuni casi, dei precisi tempi di anticipazione dell’informazione, rispetto agli interessati), le modalità della verbalizzazione, la precedenza, nel ruolo d’udienza, accordata a processi con imputati detenuti.

Una serie di accorgimenti finalizzati ad assicurare, verrebbe da dire, la razionalità minima del sistema, confidando nella (non scontata) promessa di reciproca collaborazione tra tutti gli operatori, protagonisti della scena processuale.

Anche soltanto per inciso, merita ricordare che il patrimonio di valori condivisi della comunità composta degli operatori del diritto consente di ottenere risultati importanti, proprio favorendo la presa di coscienza (comune) circa la possibilità che, aggregando le relative forze e competenze, possano essere raggiunti risultati per tutti (in primis, per la collettività) soddisfacenti.

Relazioni, collaborazione, costante (quindi: non episodica e frammentaria) interazione ed impegno condiviso sono le componenti, tanto indispensabili, quanto rare, per una rinnovata attitudine del sistema giudiziario ad attuare diritti, secondo le sempre crescenti e più raffinate richieste di una società in rapida trasformazione.

Ciò detto, il protocollo che commentiamo non si limita ad affrontare e disciplinare la gestione delle attività processuali né, come talvolta avviene, a ribadire regole già imposte per legge: valga, come esemplificazione di quanto già dovuto per legge, la regola ridondante (che si ritrova in alcuni protocolli) secondo cui “giudice, P.M., difensori, in udienza sono tenuti ad indossare la toga”.

Ci si propone di “frugare tra gli interstizi della legge”, per dirla con Gianni Canzio, per trovare modi condivisi e condivisibili per colmare i vuoti e proporre al cittadino un “servizio Giustizia” il più aderente possibile ai principi costituzionali e di affermazione internazionale.

A più riprese, e su diversi fronti, si è già pensato ed attuato di utilizzare i protocolli, onde garantire, per esempio, una tempistica conforme ai principi del giusto processo, prevedendo la calendarizzazione della sequenza di udienze che il giudice va a svolgere, in quanto noto è il disservizio che può annidarsi nel mancato governo dei complessivi tempi processuali.

Deve notarsi che, già nell’ambito della Convezione dei Diritti dell’Uomo del 1950 (art. 6) era stata prevista la durata ragionevole del processo ma, oggi, si tratta di regola ineludibile, in quanto espressamente previsto dall’art. 111 della Costituzione di cui ogni magistrato non può quindi ignorare l’esistenza.

E’ banale – ma il deficit, ancora profondo, di sensibilità e capacità organizzative impongono di ripeterlo – che una sentenza (penale e civile), pronunciata a distanza di anni dall’azione e seconda una tempistica imprevista ed imprevedibile, non si ponga in linea di compatibilità rispetto al paradigma del giusto processo.

Già note e diffuse sono le linee guida approvate dal LAPEC al convegno di Venezia, in tema di Esame Incrociato.

Si tratta, quindi, di richiamare alla sensibilità professionale chi opera nell’ambito della giurisdizione, nella convinzione che fenomeni ricorrenti (e stigmatizzati dalla giurisprudenza) quali l’abuso del diritto e del processo, meritino di essere contrastati attraverso una accurata azione condivisa, ove, grazie all’impiego di leve culturali, si lavori per costruire una comune competenza ed attitudine professionale ispirata al fair play.

Insomma, una serie di regole che, in quanto maturate in un clima di condivisione, rispetto dei reciproci ruoli, implicito riconoscimento delle competenze rispettive e della natura di servizio della giurisdizione, segnano uno snodo importante verso la definitiva consapevolezza della necessità di affrontare laicamente e pragmaticamente i problemi della giurisdizione.

Muovendo dai suddetti principi, ed animati da queste pratiche esigenze, i componenti del LAPEC si sono posti l’ambizioso proposito di formulare alcune riflessioni e, di conseguenza, delle indicazioni, sulla possibilità di incidere, nella prassi prima che sulla legge, per l’attuazione del giusto processo.

Suddiviso il rito penale nelle fasi del “Procedimento” e del “Processo”, due sottocommissioni hanno elaborato una prima serie di tematiche, riassumibili nelle schede di presentazione che seguono.